13 Aprile 2016, Los Angeles, uno Staples Centre gremito si prepara ad “assistere” all’ultimo match della stagione regolare; la squadra di casa, ora mai senza obbiettivi, dovrà fronteggiare degli Utah Jazz già sicuri dei playoffs, una partita apparentemente inutile, sottolineo, apparentemente. Si accendono i riflettori sulla città degli Angeli, sta per aprirsi il sipario, si va in scena. Le due squadre stanno per scendere in campo, come fa ormai da 20 anni a questa parte, il #24 in maglia Lakers, tale Kobe Bryant, sta caricando i  suoi ragazzi, quasi come fosse una gara 7 di finale, “Win or go Home”. Ma stavolta c’è qualcosa di particolare, strane vibrazioni invadano il palazzetto. Questa partita é diversa, diversa da tutte le altre disputate da quel 1996, anno in cui un ragazzo venuto dall’high school realizzò i suoi sogni, indossando la canotta giallo viola dell’idolo di infanzia Magic.

 

Vengono presentati tutti i giocatori, come di consueto, dopo di che la luce fa il suo giro e torna dal suo prescelto, “WITH THE NUMBER 24, THE BLACK MAMBA, KOBEEE BRYANT.” Succesivamente a questa iniziale premessa, si aprono le danze, l’ atto principe, quello conclusivo, è ormai in procinto di compiersi. Quello di Bryant è un corpo lacerato, disintegrato dai problemi fisici accorsi negli anni. Peccato che la sua mente trascenda il  corpo, lo ha sempre fatto, ma quella sera più di altre, le sinapsi del 24 erano divenute extraterrestri. La sua mente aveva sentenziato giá tutto, il corpo avrebbe dovuto sottomettersi alla superiorità encefalica, quella sera ogni dolore miracolasamente scomparve, le endorfine prodotte ricucirono ogni cicatrice, ogni danno interno. Il canestro non era una vasca da bagno, ma verosimilmente una piscina olimpionica. Tiri su tiri, senza mai fermarsi, canestri su canestri, senza esclusioni di colpi.

 

A fine serata saranno 60, dicasi 60. Nessuno era mai arrivato a 45 l’ultimo giorno, figuriamoci scavallare quota 50. Quel giorno Kobe non ha  giocato, assolutamente no, ha tenuto davanti  tutto il mondo un reale simposio di palallacanestro, poichè giocare è una cosa, declamare è una cosa totalmente diversa. Siamo stati tutti testimoni di cosa questo pseudo umano abbia compiuto in questi innumerevoli anni di onorata carriera. Elencare tutti i traguardi, da singolo e di squadra, raggiunti, sarebbe superfluo, ma sarebbe prima di tutto una vile semplificazione di ciò che il numero 24, ex numero 8 abbia compiuto. Ma il vero ultimo atto della sua carriera si tenne un anno mezzo dopo, al ritiro delle magliette. Si, DELLE magliette, nessuno indosserà mai più la 8 e la 24 giallo viola. Due facce di una stessa medaglia,due volti di uno stesso uomo, l’8 e il 24. Come poter scegliere? É come chiedere se si voglia più bene alla mamma o al papà. L’8 era più atletico, più esplosivo; il 24 mostrava larghi tratti di onnipotenza cestistica e dimostrava di saper fare la qualunque cosa sul parquet.10 anni per numero, divisi equamente, 20 anni complessivi di emozioni inenarrabili.

 

Kobe si è sempre messo in gioco,reinventandosi come giocatore e come uomo,riuscendo a non essere mai banale,non essendolo nè durante la sua ultima “allacciata di scarpe” nè durante il suo conclusivo simposio per il ritiro delle casacche. Un idolo,una leggenda,uno status symbol…semplicemente KOBE BEAN BRYANT.

 

Giovanni Fede