3.376.277, il numero di voti ricevuti da Derrick Rose dai fan. 200mila in più di Harden, che sta facendo una stagione mostruosa tenendo a galla da solo i Rockets. 1milione in più circa, rispetto a Mr. TripleDouble. 36 i voti ricevuti dai suoi colleghi, che hanno riconosciuto come in questa stagione DRose sia tornato ad essere un All Star. Purtroppo, però, non siamo ancora sicuri di vederlo in scena nel weekend di Charlotte a causa del sonoro 0 ricevuto dai Media, quelli che molte volte durante la sua carriera lo hanno fortemente criticato.
Possiamo stare qui a parlare dei suoi numeri in questa stagione che lo hanno riportato alla sua rinascita. Possiamo parlare dei suoi infortuni, 15 con l’esattezza. Il primo nel marzo del 2009, polso destro, fuori 4 gare. Ultimo in ordine di tempo, il 29 dicembre 2018, alla caviglia, ma per fortuna niente di grave. Possiamo parlare infatti di quanto questi infortuni lo abbiamo portato ad essere il lontano partente del “Rose MVP”, o ancora di quante volte abbia deciso di smettere per tutelare il suo corpo e la sua persona, molte volte attaccata mediaticamente. Qualcuno infatti sosteneva che era meglio che “appendesse gli scarpini”, ma parlavano senza conoscere la sua storia; quella dell’uomo prima che dell’atleta Rose. Possiamo fare queste ed altre mille cose, eppure Derrick ha zittito tutti, facendo parlare il campo. Quello stesso campo che gli ha tolta l’esplosività di inizio carriera, rubandogli inesorabilmente la sua youth. Quel campo su cui si è accasciato tante volte, battendo in terra il pugno all’ennesimo ostacolo che la vita gli poneva davanti. Uno strano tizio con i baffi diceva che “lo sport va a cercare la paura per dominarla, la fatica per trionfarne, la difficoltà per vincerla.”. Ecco, quello strano “tizio” era Pierre de Coubertin, per molti il fondatore dei moderni Giochi Olimpici. DRose è il perfetto interprete di questa citazione. Quella di Derrick, infatti, è la storia di un uomo con mille cicatrici, cresciuto tra mille difficoltà, ma che nonostante tutto è rinato dalle proprie ceneri, grazie alla sua tenacia e forza di volontà.

Derrick Martell Rose nasce a Chicago il 4 ottobre del 1988. È l’ultimo di 4 figli. La famiglia vive ad Englewood, uno dei quartieri più pericolosi della città di Chicago, dove la soglia di povertà nel solo circondario sfiora il 45%. Una situazione non del tutto facile, per il piccolo “Pooh”, il suo soprannome quando era ancora un bambino perché era simile all’orso dei cartoni e perché è ossessionato dal dolce. Il basket, quindi, era una delle poche vie d’uscita dei ragazzi della zona. Una via d’uscita che un po’ di anni dopo prenderà anche Anthony Davis, originario proprio di quel quartiere. I fratelli maggiori, infatti, erano tutti ottimi giocatori, ma non riusciranno mai a sfondare, a differenza del loro fratellino. Derrick, inizia a giocare nei campetti del quartiere e, grazie ai mille consigli dei suoi fratelli, subito inizia a farsi notare.

Nel 2003, all’età di 15 anni, inizia il liceo. Si iscrive alla Simeon Career Academy, poco distante dalla sua casa. Il primo anno, nonostante il suo talento fosse già conosciuto ai più, Rose non giocherà nella squadra titolare della scuola, a causa di una strana “regola” del vecchio Bob Hambric, l’head coach, che non permetteva ai “freshmen” di giocare nel “varsity team”. Nonostante ciò, Derrick continuerà ad allenarsi, perché sa già che la sua occasione un giorno arriverà. Sul finire dell’anno scolastico arriva il momento che tanto stava aspettando, ma che forse anche lui sa di “non meritarsi abbastanza”. Coach Hambric ha bisogno di lui per un torneo statale, ma Derrick, dopo un iniziale tentennamento, declinerà gentilmente l’offerta; non vuole togliere spazio a chi davvero se lo merita. Ma il suo cammino all’high school è appena iniziato, e non ci vorrà molto prima che lasci un segno indelebile negli annali dell’istituto. L’anno successivo Hambric va in pensione e la scuola lo sostituirà con Robert Smith, tutti nomi di circostanza, anche perché quell’anno DRose non può rimanere fuori dalla squadra titolare della scuola, era troppo forte per non infrangere quella “stupida” tradizione.

“Vintage Rose” in una delle sue partite all’high school con Simeon.

Alla prima stagione con la squadra, il numero #25 si manterrà su quasi 20 punti di media conditi con 5 rimbalzi e 8 assist. Guiderà i Wolverines ad un record di 30 vinte e 5 perse, e ad un tutto esaurito ad ogni partita casalinga. Il tornado DRose si era abbattuto su Chicago. Nel suo anno da “junior”, nel 2006, i Wolverines vinceranno il torneo cittadino ospitato allo United Center. Grazie a quella vittoria l’istituto approderà alla fase nazionale. I playoff furono molto difficili, eppure i Wolverines riuscirono a raggiungere l’ambitissima finale, dove sfidarono Richwoods, in una gara tiratissima, mandata all’overtime grazie ad una prodezza dei ragazzi di Peoria (Richwoods ndr). A Derrick però sono sempre piaciute le sfide e di certo non poteva farsi scappare questo titolo, così a pochi secondi dalla fine del supplementare, ruba palla, pochi palleggi, arresto, tiro e canestro sulla sirena. Game, set and match, vittoria Wolverines, che bisseranno anche l’anno successivo. Alla fine del liceo, Rose era già nei primi 5 migliori prospetti della nazione. Lascerà l’high school con un bottino di 120 vittorie con sole 12 sconfitte, facendo diventare grande un istituto di South Chicago. Non male per un ragazzo di Englewood.

La scelta del college fu una delle più difficili della sua vita. Nato, cresciuto e fatto grande a Chicago, nell’Illinois, e nell’Illinois voleva restare. Era a casa e non voleva andar lontano. Dopo un periodo travagliato, scelse di giocare a Memphis per coach John Calipari, che lo aveva visionato in un torneo estivo. Al college, rimase solo un anno, ma riuscì a guidare l’istituto al primo posto nel ranking NCAA. Il titolo sfuggito in overtime contro Kentucky, segnò l’ultimo atto di Rose al college. Il ragazzo era pronto per l’NBA.

Il suo percorso nella lega lo conosciamo un po’ tutti. Scelto alla prima dalla sua squadra, dalla sua gente. Chicago. Dopo un anno fuori, ritornava a casa, in quella che dal 2008, o se vogliamo da sempre, sarà la SUA CASA, his home. Con quella casacca vincerà il titolo di MVP, appena 3 anni dal suo esordio in maglia Bulls, raggiungendo così “The Goat” Micheal Jordan come unico a riuscirci per la franchigia dell’Illinois. Inutile parlare poi dei 15 infortuni e delle oltre 300 partite saltate che fanno quasi 4 stagioni regolari lontano dai campi. Inutile scrivere delle lacrime versate dal ragazzo nativo di Chicago alla notizia della rottura del legamento, durante la gara dei playoffs contro i 76ers del 2012. Dalla rottura dell’ACL, passerà altre 4 stagioni in maglia Bulls, nelle quali Rose sembra giocare contro i fantasmi del passato più che contro i suoi avversarsi. Da lì poi la trade che lo porterà ai Knicks, nel 2016, sino alla recente storia.
Con i T’Wolves stiamo ammirando un Rose diverso, a tratti migliore come dice lo stesso giocatore, che si definisce più maturo, molto meno impulsivo quindi più attento a tutti i diversi aspetti del Gioco. La gara dei 50 punti contro Utah ha fatto scendere una lacrima a molti suoi estimatori e ha zittito chi per anni lo ha criticato troppo facilmente. Negli anni infatti ha saputo migliorare molti aspetti del suo gioco, tra questi il suo tiro, non sempre molto affidabile agli inizi di carriera anche perché riusciva a nasconderlo con facilità grazie alle sue estemporanee accelerazioni che finivano con una schiacciata al ferro devastante. Il buzzer beater di pochi giorni fa contro i Suns è solo il culmine di una crescita professionale e interiore del giocatore.

Big time players make big time plays”.

Avendolo ammirato nella sua forma “prime” forse rimarrà uno dei più grandi “what if” della storia di questo gioco. Chissà forse, oggi insieme allo strapotere fisico del Re, alle doti da tiratore e leader di Curry, alle gesta di Russell Westbrook, Harden e compagnia, si sarebbe aggiunto anche Derrick Martell Rose, eppure la storia ha voluto che ci focalizzassimo più sui suoi 15 infortuni piuttosto che alle sue meravigliose qualità umane prima e atletiche poi.

Un giorno quando sarò padre racconterò a mio figlio/a di un uomo che ha lottato contro sé stesso, prima che contro il mondo, per dimostrare quanto era forte. Nel farlo però ha affrontato mille ostacoli, inizialmente insormontabili, ma poi grazie alla tenacia e alla volontà d’animo sono stati spazzati via come sabbia al vento.

Non voglio cancellare il mio passato, perché nel bene o nel male mi ha reso quello che sono oggi. Anzi ringrazio chi mi ha fatto scoprire l’amore e il dolore, chi mi ha amato e usato, chi mi ha detto ti voglio bene credendoci e chi invece l’ha fatto solo per i suoi sporchi comodi. Io ringrazio me stesso per aver trovato sempre la forza di rialzarmi e andare avanti, sempre.”

Derrick Martell Rose. Fallire non è mai fatale, ma è il coraggio di continuare quello che conta.