Sono passati solo pochi giorni dall’eliminazione di OKC dai Playoff e non può che esserci delusione dopo la stagione appena passata. Il più atteso era lui, Mister Tripla Doppia, il capitano della squadra: Russel Westbrook.  RW proveniva da una delle stagioni più importanti a livello personale grazie al premio MVP vinto al fotofinish sul duo Harden/Leonard e dal record di triple doppie stagionali (42) che gli hanno permesso di superare un totem della palla a spicchi come Oscar Robertson. Tutti questi riconoscimenti e premi individuali non possono però appagare la fame di un fuoriclasse come Brodie e così, a inizio stagione 2017/2018, la franchigia decide di compiere un improvviso “All In” per tentare la vittoria nella stagione successiva. 

I Thunder acquisiscono nell’estate 2017 sia Paul George che Carmelo Anthony in modo da dare al proprio capitano una squadra in grado di competere per il titolo.  Sulla carta OKC ha uno dei migliori quintetti di tutta l’NBA (Westbrook, Robertson, Paul George, Carmelo Anthony, Adams) e tanti giornalisti la accreditano come una papabile favorita per l’anello: la franchigia biancazzurra termina la stagione quarta in classifica, alle spalle di Golden State, Houston e la sorpresa Portland.  A livello di risultati, la franchigia non ha effettivamente deluso: la qualificazione ai playoff era l’obbiettivo minimo richiesto e così è stato, ma ciò che ha fatto storcere il naso ai propri tifosi è come è avvenuta questa qualificazione alla PostSeason.

La squadra durante tutto l’anno ha vissuto momenti di alti e bassi, che hanno messo subito in discussione la buona convivenza tra i 3 All Star.  Si è visto un Melo molto insofferente, quasi sacrificato nel ruolo di ala forte: a livello di punti abbiamo visto forse il peggior Carmelo da quando è in NBA e questi ultimi playoff fatti sottotono ne sono la prova.  Paul George si è confermato un un ottimo giocatore anche al di fuori di Indiana, come dimostrano 26 punti di media e le 2 palle rubate a partita, ma anche palesato i suoi limiti.  Giocatore dalla classe indubbia e destinato a rimanere al top nella lega per molti anni, ma atleta non troppo costante nelle sue prestazioni.  Lo step che PG deve fare è proprio a livello di “Clutch Moments”, momenti in cui il fuoriclasse della franchigia tira fuori i cosiddetti attributi e guida i propri compagni alla vittoria, caricandosi la squadra sulle spalle.  A George manca questo piccolo passo, che siamo certi, non tarderà a fare nei prossimi anni, a Oklahoma o altrove.

Westbrook invece conclude la sua seconda stagione consecutiva con una tripla doppia di media, 25.4 punti, 10.1 rimbalzi e 10.3 assist.  Ai Playoff la squadra viene eliminata al primo turno dagli Utah Jazz, guidati dal Rookie Donovan Mitchell che chiude la serie sul 4-2.  Risultato: OKC fuori dai PlayOff, bocciatura del progetto “Big Three”.  Cosa ne sarà di Oklahoma e perché hanno fallito così miseramente la loro volata alla Finals?  Le critiche sono state numerose come i “capri espiatori”: c’è chi ha puntato il dito contro coach Billy Donovan, incapace di orchestrare al meglio la squadra, c’è chi ha criticato Melo per la sua “non attitudine” in campo, chi una second unit di scarso livello o c’è chi ha puntato il dito contro l’Uomo che meglio rappresenta la franchigia, ovvero Russel Westbrook.  I colleghi americani si sono soffermati su alcune statistiche individuali riguardanti i miglioramenti avuti di tutti quei giocatori che hanno lasciato OKC per altri team e i risultati sono davvero stupefacenti.  Dati alla mano, la coesistenza con Russel è più complicata di quanto si possa pensare; l’ego di Westbrook, la volontà di gestire le azioni in totale autonomia, portano l’MVP 2017 a “eclissare” involontariamente il talento dei compagni, nonostante più di 10 assist distribuiti a partita.

L’esempio più recente è il miglioramento esponenziale di Victor Oladipo, da giocatore nella media negli anni a Orlando e OKC, a uomo franchigia in quel di Indiana.  Da quando ha lasciato la franchigia biancoazzurra, Ola è cresciuto sia dal punto di vista realizzativo ( +7.2 punti rispetto all’anno con RW) che dal punto di vista di “attitude”: Oladipo quest’anno è la mente e il cuore di Indiana, il giocatore a cui lasciare l’ultimo possesso decisivo, colui che guida e sprona i compagni.  Ciò che stupisce è la fiducia nei propri mezzi che ha acquisito in così poco tempo: la possibilità di avere più palla in mano, più libertà nel gestire le azioni, lo hanno portato a maturare come atleta.  Tutto questo sarebbe stato possibile a fianco di Russel?  Ex compagno di Oladipo a Oklahoma, anche Enes Kanter ha visto le sue prestazioni migliorare dopo aver lasciato la squadra biancazzurra: a New York ha trovato maggior minutaggio e fiducia da parte della dirigenza (a OKC era riserva di Steven Adams), ma potremmo anche sottolineare i miglioramenti tangibili di giocatori nella media, come i vari Sabonis, Jackson o Waiters.

Arriviamo in fine ai “mostri sacri” della lista: James Harden e Kevin Durant.  Il Barba nel 2012 passa a Houston dopo l’esperienza a Oklahoma; questo passaggio coincide con la svolta nella sua carriera cestistica.  Da miglior sesto uomo vinto proprio nell’annata 2011/2012, Harden a Houston diventa in poco tempo il leader tecnico della squadra aumentando il livello di prestazioni di anno in anno, fino ad arrivare all’anno attuale: record di franchigia nella regular season, finale di Conference appena conquistata e premio MVP ad un passo.  Ci sono voluti anni per la definitiva consacrazione, ma ad oggi, anno 2018, Harden è la migliore guardia della Lega e questo in parte è dovuto ad una motivazione molto semplice: il JH a Houston è sempre stato il punto di riferimento della franchigia, nonostante negli anni sia stato affiancato da giocatori di una certa importanza, vedi Howard e quest’anno Chris Paul.  Se Harden non avesse lasciato RW, non credo che ammireremmo il giocatore che è ora.

E che dire di KD, nella Baia ha innalzato ulteriormente il suo livello di superstar, diventando devastante in entrambe le metà capo, tanto letale sotto canestro quanto efficace in fase difensiva.  Durant non ha risentito nell’inserirsi in un superteam, anzi si è inserito perfettamente nell’orchestra di gioco giostrata dal coach Steve Kerr.  Non ha palesato malumori per il palcoscenico condiviso con le star della franchigia, anzi, con umiltà, ha deciso di mettersi a servizio della squadra, riuscendo a rimanere su medie punti stratosferiche e vincendo l’MVP delle ultime Finals.  Sicuramente Durant, approfitta dello spazio lasciato dalle difese avversarie, che spesso raddoppiano i vari Curry, Thompson o Iguodala, attaccando il canestro o tirando dalla lunga distanza.  Kevin ha fatto un ulteriore passo in avanti trasferendosi nella miglior squadra della Lega: innanzitutto ha vinto, cosa non da poco, e inoltre ha saputo migliorarsi come percentuali realizzati: il +3.2 non è casuale.

Tutte queste riflessioni ci portano a pensare a una cosa: è davvero congeniale giocare a fianco di Russel Westbrook? Nonostante la sua “garra” e la voglia di vincere che porta sempre in campo, è davvero un fattore positivo per i compagni?  Per ora i risultati non sono dalla parte del play di Oklahoma, ma a noi amanti della palla a spicchi non dispiacerebbe vederlo, prima o poi, alzare quel benedetto titolo che da anni insegue.  Intanto i suoi ex compagni migliorano e Russel dovrebbe porci attenzione, magari…