La cavalcata degli Houston Rockets termina con una sconfitta per 101-92 in favore dei Golden State Warriors in gara-7 delle finali di Conference al Toyota Center. Un epilogo che lascia l’amaro in bocca ai Razzi, anche e soprattutto in virtù dell’assenza di Chris Paul, bloccato per la seconda volta consecutiva a causa di un infortunio rimediato in gara-5 e costretto ad assistere alla gara dalla panchina.

 

Con lui il copione sarebbe stato diverso? Difficile dirlo, ma sicuramente la sua presenza in gara-7 avrebbe permesso alla squadra di girare meglio e a James Harden di rifiatare, in particolar modo in un terzo quarto in cui i padroni di casa hanno gettato alle ortiche un vantaggio di di ben undici lunghezze, facendosi rimontare dai campioni in carica, privi di Andre Iguodala. 

 

Con CP3 out, gran parte delle responsabilità in fase offensiva ricadono su James Harden ed Eric Gordon, che insieme mettono a referto 55 punti, 9 rimbalzi, 12 assist, 5 palle recuperate e 2 stoppate e si fanno apprezzare anche per l’abnegazione in difesa. Nella propria metà campo, a farla da padrone è Clint Capela, coadiuvato da P.J. Tucker: i due dominano sotto canestro, facendo registrare ben 32 punti e 21 rimbalzi (di cui ben 12 offensivi). A deludere e non poco è Trevor Ariza: per lui nemmeno un canestro, con 0/12 al tiro e 0/9 da tre.

 

Al di là delle statistiche, Houston è abile a non mollare e a non abbattersi, nemmeno dopo aver sbagliato ben 27 tentativi da dietro l’arco di fila (record NBA) e nemmeno in un finale in cui i Warriors si portano anche sul +13 (89/76). Curry va vicino alla tripla doppia (27 punti, 9 rimbalzi, 10 assist, 4 palle recuperate e una stoppata) e, dopo aver sbagliato tanti tiri nel primo tempo, chiude con un ottimo 7/15 dalla lunga distanza. 

 

Per gli ospiti fanno la differenza anche i 34 di Durant (11/21 dal campo), i 19 di Thompson (8/13 al tiro) e la doppia doppia da 10 punti, 13 rimbalzi, 5 assist, una recuperata e una stoppata di Green. Nonostante il supporto del Toyota Center e l’occasione storica di tornare alle Finals dopo 23 anni ed interrompere l’egemonia dei Warriors ad Ovest (quarto titolo di Conference consecutivo per quelli della Baia), Houston esce sconfitta per 4-3 dopo aver dato tutto, o quasi.

 

Se è vero che una maggiore precisione al tiro da tre avrebbe dato luogo ad un finale più combattuto o comunque meno in salita per i texani, è pur vero, infatti, che con i se e con i ma non si va da nessuna parte: i Rockets non possono avere rimpianti, perché hanno dato il massimo e gettato il cuore oltre l’ostacolo sin dalla prima partita dei playoff. 

 

I pronostici li davano nettamente sfavoriti contro i Warriors e c’era chi addirittura sosteneva fortemente che Golden State avrebbe vinto massimo in cinque partite, chi invece sottovalutava i Rockets, ritenendo che ai playoff non avrebbero ripetuto quanto di buono fatto vedere in regular season. Houston, però, ha rispedito al mittente le critiche e, nonostante alcuni errori rivedibili, ha innegabilmente divertito ed entusiasmato non soltanto i propri tifosi. 

 

Rispetto alla scorsa stagione, in cui i Rockets furono sconfitti nettamente dai San Antonio Spurs in gara-6 delle semifinali di Conference al Toyota Center (114-75 il punteggio finale in favore degli Speroni), Houston è cresciuta tantissimo, divenendo sempre più efficiente e solida su entrambi i lati del campo. Merito anche e soprattutto degli innesti di P.J. Tucker e Gerald Green, il primo gran tiratore dall’angolo e difensore d’esperienza, il secondo efficiente cecchino, e di Chris Paul, strappato la scorsa estate alla folta concorrenza. 

 

CP3, smentendo gli scettici, si è adattato alla grande al fianco di James Harden, mantenendo la propria identità cestistica ma al tempo stesso evolvendosi in maniera tale da inserirsi perfettamente nel sistema di gioco disegnato da Mike D’Antoni, Coach of the Year in carica è capace di trascinare i Rockets al primo posto ad Ovest col miglior record della lega e della loro storia (65-17). Degna di nota anche la crescita esponenziale di Clint Capela, tra i candidati per il premio di Most Improved Player, e l’ennesima stagione ad alto livello di James Harden. 

 

Il Barba ha vissuto la miglior annata della sua carriera in regular season, risultando il miglior marcatore della lega con 30.4 punti a partita, e si è ripetuto nei playoff. Dopo aver vissuto la serata più brutta della sua esperienza in quel di Houston in occasione di gara-6 persa con gli Spurs (appena 10 punti, 3 rimbalzi, 7 assist, una palla recuperata, una stoppata e ben 6 palle perse con 2/11 al tiro e un’esplosione per falli), Harden ha mostrato enormi progressi per ciò che concerne la sua tenuta mentale, al di là delle stats: per lui, i playoff si chiudono con medie di 28.6 punti, 5.2 rimbalzi, 6.8 assist, 2.2 palle recuperate, 0.6 stoppate e 3.8 palle perse per gara col 41% al tiro.

 

The Beard si avvia verso la vittoria dell’MVP della regular season ed è ormai consacrato tra i migliori giocatori della lega: l’anno prossimo, inevitabilmente, proverà nuovamente a dare la caccia alle Finals. Proprio per perseguire quest’obiettivo, il general manager Daryl Morey intende trattenere sia Chris Paul che Clint Capela. A loro potrebbe aggiungersi un pezzo da novanta della free agency, ossia il sogno LeBron James o Paul George.

 

In entrambi i casi, però, non sarà semplice strappare uno dei due alla nutrita concorrenza, soprattutto per ciò che concerne l’aspetto economico. In questo senso, i Rockets dovrebbero rinnovare Ariza, Mbah a Moute e Green ai minimi salariali e, soprattutto, liberarsi del pesante contratto di Ryan Anderson, che quest’anno ha percepito poco più di 19 milioni e mezzo di dollari ed ha ancora altri due anni di contratto, per un totale di circa 42 milioni. 

 

Manovre e voci di mercato per le quali ci sarà tempo e modo di discutere e ragionare. In attesa dell’offseason, l’attenzione è ancora rivolta alla super stagione vissuta dagli Houston Rockets, arrivati ad un passo dal detronizzare una delle migliori squadre di tutti i tempi, lanciata verso il suo terzo anello negli ultimi quattro anni.

 

Migliorare anno dopo anno, dal record in regular season al piazzamento ai playoff, passando per i singoli (vedi stagioni di Harden e Capela in primis), sembra essere l’imperativo in quel di Houston, la chiave ideale per coronare un sogno che non viene accantonato, ma soltanto posticipato.