Pochi giorni fa, i Golden State Warriors hanno conquistato il loro terzo titolo nel giro degli ultimi quattro anni, il sesto della loro storia. Un’impresa che colloca definitivamente la franchigia della Baia tra le migliori squadre della storia della lega. Merito di un gruppo compatto e coeso che ormai da quattro stagioni consecutive domina la Western Conference ed approda alle Finals, ma anche e soprattutto di coach Steve Kerr, che ha permesso ai suoi di compiere il definitivo salto di qualità e diventare una squadra leggendaria.

 

Se è vero che i vari Stephen Curry, Klay Thompson e Draymond Green hanno formato un trio micidiale, venendo poi affiancati da un fuoriclasse del calibro di Kevin Durant, infatti, è pur vero che i primi tre non sono riusciti a cavare il ragno dal buco nei loro primi anni in quel di Oakland, non andando oltre le semifinali di Conference nel 2013 (4-2 in favore dei San Antonio Spurs) e il primo turno nel 2014 (4-3 per i Los Angeles Clippers). La svolta arriva con la scelta di affidare la panchina a Steve Kerr, reduce da un’esperienza da analista a TNT e protagonista di una dignitosa carriera da giocatore, con cinque titoli vinti (tre con i Chicago Bulls e due con i San Antonio Spurs) e vari riconoscimenti individuali (Three Point Shootout nel 1997, Shooting Stars Competition nel 2006 e miglior tiratore da tre punti nel 1990 e nel 1995).

 

Prendendo ispirazione dal leggendario coach Phil Jackson, suo allenatore in quel di Chicago dal 1993 al 1998, da Gregg Popovich, con cui ha avuto modo di lavorare a San Antonio dal 1998 al 2001 e nella stagione 2002-2003, la sua ultima in NBA, e vari allenatori che hanno rivoluzionato il gioco moderno, tra cui Mike D’Antoni, Kerr ha permesso ai Golden State Warriors di diventare una squadra solida e in grado di competere per il titolo, sfruttando al meglio le qualità di ogni componente del roster a sua disposizione. Al suo primo anno sulla panchina di Golden State, Kerr conduce la squadra al primo posto nella Western Conference col miglior record della sua storia (67-15), conquistando l’anello contro i Cleveland Cavaliers (4-2), dopo aver eliminato, nell’ordine, New Orleans Pelicans (4-0), Memphis Grizzlies (4-2) e Houston Rockets (4-1), con Andre Iguodala eletto MVP delle Finali.

 

L’anno successivo, alcuni problemi alla schiena lo costringono a saltare le prime 43 partite di regular season, lasciando alla guida della squadra al suo vice Luke Walton, attuale head coach dei Los Angeles Lakers, per poi tornare sul finire di gennaio e condurre i suoi al miglior record mai stabilito da una squadra in stagione regolare (73-9, superando il 72-10 centrato dai Bulls nel 1995-1996, anno in cui indossava la canotta dei Tori Rossi) e, quindi, nuovamente alle Finals, non senza difficoltà. Dopo aver superato, in entrambi i casi per 4-1, gli Houston Rockets e i Portland Trail Blazers, infatti, i Warriors vanno sotto 3-1 con gli Oklahoma City Thunder di Russell Westbrook e Kevin Durant e rischiano seriamente di abbandonare anticipatamente la post season. Grazie ad una storica rimonta, però, i californiani si impongono per 4-3, ma alle Finals periscono alla stessa maniera.

 

Dopo essersi portati sul 3-1, infatti, i Warriors subiscono una rimonta mai vista prima nelle Finals, con LeBron James che trascina i Cleveland Cavaliers al 4-3 finale con cui la franchigia dell’Ohio mette in bacheca il primo titolo della sua storia. Dopo aver vinto nel 2015 contro i Cavs privi di Kyrie Irving e Kevin Love e aver perso in malo modo nel 2016 al completo, Golden State capisce che per diventare la squadra più forte della lega è necessario rinforzare il roster e lo fa convincendo il free agent Kevin Durant ad approdare nella Baia, battendo la concorrenza dei Boston Celtics (che punteranno poi sul lungo dominicano Al Horford).

 

Con KD al fianco di Curry, Thompson e Green, i Warriors si piazzano nuovamente primi ad Ovest con 67 vittorie e 15 sconfitte e ai playoff si sbarazzano agevolmente di Portland Trail Blazers, Utah Jazz e San Antonio Spurs, tutte e tre spazzate via con uno sweep, prima di concedere una sola vittoria ai Cleveland Cavaliers (4-1) nelle Finals più a senso unico delle tre disputate tra GSW e Cavs fino a quel momento. Durant si aggiudica quindi il primo titolo della sua carriera, con annesso MVP delle Finals, risultando il vero ago della bilancia di una serie in cui Golden State mostra la propria superiorità rispetto ad un gruppo destinato a sfaldarsi l’estate successiva.

 

Con Kyrie Irving trasferitosi ai Boston Celtics e mal rimpiazzato da Isaiah Thomas e Derrick Rose prima e George Hill e Jordan Clarkson poi, i Cavs si rivelano ancor meno adatti ad ostacolare l’egemonia dei Warriors nella lega, ma riescono comunque ad approdare alle Finals per il quarto anno di fila, al pari di Golden State. Pur soffrendo più del previsto, infatti, la squadra californiana elimina in sette partite gli Houston Rockets in finale di Conference, dopo aver sconfitto per 4-1 i San Antonio Spurs prima e i New Orleans Pelicans poi, e in finale non fa sconti a Cleveland, rifilandole un pesantissimo sweep (4-0), il secondo della sua storia dopo quello incassato nel 2007 dagli Spurs.

 

La conquista di tre titoli in quattro anni è un’impresa riuscita che era riuscita soltanto ai Los Angeles Lakers, ai Boston Celtics e ai Chicago Bulls, tre squadre che hanno scritto pagine importanti della storia del basket a stelle e strisce. Da quest’anno, però, negli annali del gioco ci saranno anche e soprattutto i Golden State Warriors, una macchina perfetta in cui i vari fenomeni sanno stare al posto loro e fare gruppo per raggiungere un obiettivo comune: vincere e continuare a farlo, divertendo con una pallacanestro tanto spettacolare quanto efficace. Merito anche e soprattutto di un allenatore umile e intraprendente, che ha dimostrato di aver imparato tanto e di essere anche e soprattutto in grado di insegnare qualcosa, oltre che di apprendere.