La storia di James Harden è una delle più significative e particolari tra le tante degne di nota del basket a stelle e strisce, non soltanto per la sin qui straordinaria carriera dell’eccentrico fuoriclasse barbuto, ma anche e soprattutto dal punto di vista umano.

 

Prima di coronare il suo sogno di giocare da protagonista nella lega più importante del mondo, infatti, il nativo di Los Angeles ha dovuto superare numerosi ostacoli, di fronte ai quali non si è mai arreso. Cresciuto nel sobborgo di Rancho Dominguez, da piccolo Harden convive con una forte asma che avrebbe potuto impedirgli di continuare a giocare.

 

Oltre a ciò, suo padre abbandona la sua famiglia dopo un periodo di servizio militare, in seguito a problemi con l’alcool e a un’incarcerazione, una situazione piuttosto diffusa nel contesto in cui la futura stella NBA ha il primo approccio col mondo della palla a spicchi.

 

Sua madre Monja Willis, un punto di riferimento imprescindibile cui Harden è legatissimo, decide così di iscriverlo all’Artesia High School – laddove vince per due anni di seguito il campionato statale – per permettergli di inseguire il suo sogno ed abbandonare il degrado di Rancho Dominguez. 

 

A 18 anni si iscrive al college ad Arizona State, mostrando enormi progressi dal punto di vista individuale e rivelandosi pronto per il tanto agognato approdo in NBA dopo due anni di università. A 20 anni non ancora compiuti, dunque, Harden si candida per il Draft 2009, in cui lo selezionano i neonati Oklahoma City Thunder con la terza scelta assoluta.

 

Per OKC si tratta della prima scelta al Draft nella sua storia, dato che Russell Westbrook era stato chiamato l’anno precedente, poco prima che i Seattle SuperSonics si trasferissero ad Oklahoma e cambiassero il loro nome in Thunder. Insieme a Kevin Durant e allo stesso Westbrook, Harden vive tre annate straordinarie in quel di Oklahoma, contribuendo a portare la squadra alle Finals nel 2012.

 

Soltanto i Miami Heat del Big Three formato da LeBron James, Dwyane Wade e Chris Bosh fermeranno la cavalcata dei Thunder, con il Barba che nella stessa stagione si aggiudica il premio di Sesto uomo dell’anno e, poco prima dell’inizio della regular season 2012-2013, viene ceduto agli Houston Rockets.

 

In Texas, dopo che tra le fila dei Thunder si era ritagliato uno spazio importante da leader della second unit, compie un ulteriore salto di qualità, divenendo in breve tempo il leader indiscusso dei Razzi e riportando la franchigia ad alti livelli. A Houston, infatti, Harden diventa una superstar di livello mondiale, con la sua folta e distintiva barba che cresce di pari passo con il proprio rendimento.

 

Nel 2014-2015, Harden è il principale protagonista della super stagione dei suoi Rockets, che si piazzano al secondo posto nella Western Conference con 56 vittorie e 26 sconfitte ed arrivano fino alle finali di Conference, arrendendosi soltanto ai futuri campioni dei Golden State Warriors. Due anni più tardi, con l’arrivo di Mike D’Antoni, il Barba affina le proprie potenzialità e si rivela piuttosto anche da playmaker, mettendo a referto una doppia doppia di media da 29.2 punti, 8.1 rimbalzi e 11.2 assist (miglior passatore della lega).

 

Ciò nonostante, Houston non va oltre le semifinali di Conference, perdendo per 4-2 contro i San Antonio Spurs: l’ultima partita della serie tra i Razzi e gli Speroni è la peggiore della carriera di Harden, che fa registrare appena 10 punti con 2/11 al tiro e ben 6 palle perse. The Beard ha voltato immediatamente pagina nella stagione da poco conclusasi, dominando dalla prima all’ultima giornata di regular season e smentendo anche chi sosteneva che ai playoff tendesse a sciogliersi.

 

Dopo aver chiuso la regular season con medie di 30.4 punti, 5.4 rimbalzi e 8.8 assist, infatti, Harden ha disputato la miglior post season della sua carriera (28.6 punti, 5.2 rimbalzi e 6.8 assist per gara), trascinando i suoi Rockets fino alle finali di Conference perse per 4-3 con i Golden State Warriors, poi capaci di imporsi per 4-0 contro i Cleveland Cavaliers nelle Finals. 

 

Nonostante l’arrivo di Chris Paul alla corte di Mike D’Antoni, il numero 13 di Houston è stato in grado di fare ancor meglio della precedente stagione, adattandosi alla grande a giocare con un fenomeno del calibro di CP3 e rendendosi autore di un’annata da incorniciare, tanto da essere votato all’unanimità per far parte dell’All-NBA First Team e rientrare tra i tre finalisti per l’MVP, insieme a LeBron James ed Anthony Davis. 

 

Dopo aver già sfiorato più volte il premio nelle scorse stagioni, vedendo trionfare al suo posto Stephen Curry prima e il suo ex compagno di squadra Russell Westbrook poi, stavolta nessun ostacolo ha potuto sbaragliare la fame di successo del Barba, che conquista il primo MVP della sua carriera dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto. 

 

Harden si è presentato al Barker Hangar, teatro di Santa Monica in cui si è tenuta la cerimonia di consegna dei premi, con una giacca camouflage e occhiali da sole ed è salito sul palco insieme all’inseparabile madre Monja Willis, dedicando anche e soprattutto alla sua “spina dorsale” la vittoria del premio, per poi mandare un messaggio alla lega: “Quest’anno siamo arrivati ad un passo dalle Finals con tanti giocatori che erano appena arrivati. Pensate a cosa potremo fare l’anno prossimo”.

 

”Dal Sesto uomo dell’anno all’MVP, ci vediamo l’anno prossimo!” è la frase con cui Harden, fiero del trionfo ottenuto dopo aver “bussato tante volte a questa porta”, conclude il proprio discorso di ringraziamento. Il Barba sorride emozionato, probabilmente ripensando anche a tutti i sacrifici fatti per arrivare a vivere momenti del genere, e scherza con l’aria serena e soddisfatta di chi raccoglie i frutti di un lavoro intenso. 

 

Per lui, però, l’MVP è tutt’altro che un punto d’arrivo. A 29 anni da compiere il prossimo 26 agosto, infatti, Harden ha intenzione di migliorare ancora e coronare sempre più obiettivi possibili, primo su tutti la vittoria del primo anello in carriera. E poco importa se nonostante i suoi palesi miglioramenti anche in fase difensiva, c’è ancora chi lo attacca sotto quest’aspetto, chi lo accusa di essere un floppatore e chi, addirittura, di non aver meritato il riconoscimento.

 

Quel che è certo è che quel ragazzo con la barba ancora corta che stringeva la mano al commissioner David Stern dopo essere stato scelto al Draft dagli Oklahoma City Thunder nove anni fa è maturato anno dopo anno, ha corretto sempre più i propri difetti, sia dal punto di vista tecnico che mentale, ed ha sempre risposto alle critiche, spesso e volentieri immotivate o infondate, con i fatti.

 

Quest’anno, in particolar modo, Harden ha smentito chi riteneva che le sue medie sarebbero calate drasticamente in seguito all’arrivo di Chris Paul, chi lo accusava di non applicarsi in fase difensiva e chi metteva in evidenza il fatto che ai playoff rendesse decisamente al di sotto delle aspettative. 

 

Anche e soprattutto grazie a lui, gli Houston Rockets hanno chiuso la stagione con ben 67 vittorie ed appena 15 sconfitte, centrando il miglior record della loro storia, ed hanno sfiorato le Finali NBA, perdendo appena per 4-3 contro i Golden State Warriors futuri vincitori dell’anello e detentori anche del titolo 2017. 

 

“Ogni volta che il mondo vede una persona di successo, nota solo la gloria pubblica, e mai i sacrifici fatti in privato per raggiungerla”, citazione di Vaibhav Shah, sembra essere la frase adatta per James Harden, che ha fatto dell’etica del lavoro e della costante voglia di imparare giorno dopo giorno dei cardini attraverso i quali è riuscito a diventare il giocatore e l’uomo che è oggi.

 

Quando scrisse alla mamma “Imma be a star”, il piccolo Harden non si era affatto sbagliato: il suo è un successo più che meritato, un premio che attesta l’importanza di quanto fatto nella passata regular season dall’immarcabile barbuto, non soltanto in termini di numeri, ma anche e soprattutto per ciò che concerne la leadership, la grinta e l’energia positiva che è in grado di trasmettere ai suoi compagni sul parquet. 

 

Con 86 voti dei giornalisti su 101 totali (i restanti 15 hanno scelto LeBron James), poco più dell’85% dei votanti, dunque, James Harden è l’MVP del 2018, il terzo vincitore del premio dei membri del Big Three che fu ad Oklahoma (Durant vincitore nel 2014, Westbrook lo scorso anno): il Maurice Podoloff Trophy finisce nelle mani del giocatore più determinante della passata regular season, capace di trainare gli Houston Rockets ad una stagione da urlo, la migliore di sempre per i Razzi. E ora il Barba non intende affatto fermarsi.